L'insegna di legno dondolava fuori, era freddo, l'aria era pungente, si respirava profondo, il mare. Nell'entrare nella locanda si veniva travolti di colpo dall'ondata di odori e calore, ci voleva un certo tempo per riambientarsi. Al bancone stava quel tizio grassottello e con la maglia rossa a righe; alternava il vociare a muggiti e borbottii, serviva i clienti. Pescatori, per lo più; attendevano qualche ora ancora, prima di infilarsi in mare. La nebbiolina da attraversare la preferivano affrontare con un po' di alchool in corpo. Poi, nella locanda, stavano anche viaggiatori; soprattutto stranieri. Un tizio con cappellino tondo, verde, giù sulle orecchie; con valigetta chiusa sulle ginocchia, mangiava un panino tostato, nel suo piattino. Abbassava un po' lo sguardo, a volte lo rialzava, parlocchiava incomprensibili farfugli. Guardava di fianco a sè, la donna all'altra sedia del tavolino, e lei si chiamava Martina. Io in quella locanda ero solo proiettato per un po'; la mia magia di non avere riferimenti nello spazio e nel tempo mi permette di viaggiare, conoscere situazioni e persone. Il vocìo nel locale intorno a me era sommesso, qualche decina di minuti ancora separava quegli uomini dal loro lavoro; ogni istante, ogni parola, valeva per loro la giornata. Perchè poi l'abbandonarsi al mare sarebbe stato freddo, fin nelle ossa, e vento a sconvolgere le imbarcazioni, e le reti da issare, sulle spalle. Ancora per un po' quegli uomini se ne stavano ad assaggiare quel tepore familiare. Fra poco sarebbe stata l'alba. Ma tra tutti gli uomini, che di quel paesino costiero erano i più rudi e forti e provati, c'era (mai vista prima li dentro), una donna. Martina, dicevo. Sul tavolino di lei, accanto ai movimenti agitati delle mani di quello strano individuo che aveva davanti, stava il ventaglio, la borsetta. Finalmente quell'uomo finì uno dei suoi qualche discorsi, si alzò, se ne andò, la lasciò sola. Lei se ne accorse appena. Lui era già fuori, aveva attraversato la piazza, l'ultimo cerchio di case, battuto i piedi sul porfido per liberare qualche insoddisfazione, qualche sogno sfumato, qualche delusione ennesima. Scese la scaletta, di pietre, percorse il piccolo molo, si sedette in silenzio sulla sua valigetta. E guardava la nebbia che intanto lo aveva avvolto. Aspettava il suo battello orario, che con precisione l'avrebbe lasciato alla taverna di un porto di un altro paesino uguale e identico. Lei rimase sola per parecchio, nel frattempo. E non si aspettava che una donna sola in quel locale potesse passare inosservata così tanto a lungo. E alcuni uomini intorno, ora aveva cominciato a vederli, stavano giocando a carte. O stavano ricordando storie passate, fumando qualche sigaro, accarezzando il legno dei tavoli con le mani pelose, o stavano alzando o abbassando qualche boccale. O stavano ridendo sguaiatamente ma con voce strozzata, alle disavventure e alle storie che si tramandano fra le chiacchiere delle locande di porto. Lei decise che non sarebbe rimasta lì per molto, ad aspettare che succedesse qualcosa. Se ne sarebbe uscita, sì, avrebbe avuto l'aria fredda ad infilarsi fra le cuciture del lungo vestito che portava. E avrebbe goduto della nebbia che bagna i capelli, lunghi e neri. Oppure si sarebbe alzata, e al bancone avrebbe ordinato qualcosa di insolito, qualcosa per cui almeno il tizio grasso le avrebbe dovuto rivolgere un accenno, una parola gentile, se non addirittura qualche fischio di ammirazione alle spalle. Magari poi avrebbe scambiato due parole con qualcuno, pensava. Niente di tutto questo, quando si alzò, quando ordinò una birra, quando la lasciò dimenticata sul tavolo, quando uscì fuori e nessuno se ne accorse. Sentì l'aria fresca entrare fra le cuciture. Si allontanò un poco. Posso ben dirlo (io c'ero), che si sarebbe aspettata un addio migliore: in quel paesino era nata e vissuta per anni. Voleva un addio migliore dalla sua città natale, e dalla sua gente. Almeno un "buona fortuna" da parte di quei robusti uomini del porto. Indifferenza e nebbia, e scese la scaletta. Si trovò poi sola, sul molo a guardare la nebbia, ne rimase avvolta, era seduta su una valigetta che stava là, di fianco ad un cappello tondo, che era stato forse dimenticato da qualcuno, che era stato su quel molo. Avevo visto tutta la scena e decisi che poteva bastare. Quando si levò la nebbia, si fece avanti l'estate, quando le navi tornarono in porto cariche di pesca, e quando le voci dei pescatori arrivavano gridando: <> sin dal mercato, e quando c'erano colori, vento, onde e bambini dietro a giocare, bhe, lei era ancora sul legno di quel molo, con una valigietta finita lì chissacome, e un cappello dimenticato da uno strano signore. Il sole scaldava la pelle, la sua era coperta tutta dal vestito lungo, tranne al collo e alle caviglie. Martina si alzò, sbadigliò al sole, poi si tolse tutto quel vestito di torno. E così com'era si tuffò, e respirò, e nuotò per duecento metri almeno, senza mai nemmeno girarsi a guardare per un attimo quel posto da dove si era tuffata. Poi finalmente si riposò un poco. Guardò la riva. Alzò un braccio, muoveva forte le gambe per rimanere alta in superficie, gridò: <> E come al solito, io da qui la guardo. E questa corsa libera sul mare l'ho sognata, ne sono l'artefice. Mi accorgo di non far altro che costruire mondi e persone e specchi, così come li vorrei, o così come li vedo, o più probabilmente, così come mi rispecchiano, altro che non l'immagine di quel che sono io.