Sara, si chiamava, mi pare. Gia', Sara. Chissa' com'e' che mi torna in mente proprio ora, dopo piu' d'una decina d'anni, proprio in questa birra e nelle luci di questo bar della malora. Accidenti. A volte ti viene da pensare a come le cose si divertano a travolgerti e a sballottarti da una parte all'altra, sempre lasciandoti la convinzione di aver un minimo di voce in capitolo. <>, ti insegnano da piccolo. Gia', ci provino loro, catechisti maestre genitori capi scout e benpensanti in genere ad infilarsi in mezzo a questo pantano. E vediamo se poi schiattando continuano a ripeterti le loro balle da preti. Accarezzo il fondo del bicchiere, finisco l'ultimo dito di birra; faccio un cenno a Mario, il barista. <> <>, penso. Lo saluto in silenzio, mi giro in una nuvola di fumo dirigendomi vuoto verso la porta a vetri. La maniglia alle mie spalle e subito l'umidita' comincia a penetrarmi nelle ossa. Chiudo i 4 bottoni del cappotto nero; mi accartoccio in me stesso cercando di proteggere il piu' possibile le orecchie nel colletto. Infilo le mani nelle tasche calde. Nuoto nella luce gialla diffuse dei lampioni, e' il traffico attutito dalla nebbia delle sei di sera qui nella periferia di Milano. << Gia', domani nel parcheggio. Chissa'.>> E chissa' chi me l'ha fatto fare, di essere qui. Potevo seguire il mio destino, la strada facile che avevo davanti, e chissa' ora dove potrei essere. Potrei essere al caldo di un ufficio tecnico di qualche fabbrichetta di telefonini a progettarmene schede o a giocherellare coi protocolli delle reti di comunicazione. Oppure potrei essere in California a gironzolare con quel tipo dei termomentrini, oppure potrei essere dietro a quel bancone pieno di levette e pulsantini che tanto ho sognato da bambino. A muovere telecamere, microfonini, lucette. E invece no. A volte le le uniche vie di fuga che ti sembra rimangano sono le scelte piu' crude. Semplicemente, un po' di casini in casa, ho preferito far saltare tutto: dei curriculum alle redazioni della citta', una bella X sul libretto universitario. E un bel 'grazie, ma ho altro per la testa', al paio di dittarelle che mi avrebbero pagato a peso d'oro. Bella testolina, avevo. E 'No', ho risposto. Mi ero infinocchiato tutte quelle idee sulla gente, sulla legge. Tutte quelle filastrocche sul pane degli altri, sui Mestri, sui veri piaceri della vita, sulle bustarelle e sull'onesta' gratuita. Delle ragazze, il sorriso. E occhio sempre alle conseguenze. E poi c'era la politica, e le utopie. E poi, ancora peggio, i sogni. Gia'. Preferivo starmene a guardare la luna, di notte. Me ne andavo fuori nel vento, volevo sentire la pioggia sulla pelle. Scrivevo lettere d'amore e disperdevo nella musica le contraddizioni. Avevo ormai rinunciato all'ultimo appello di fisica all'universita', all'ultimo treno, ed ero quasi al settimo cielo; continuavo a vedere come in un cartone animato i colori del mio futuro. Pazzie dei vent'anni, certo. Il gusto di una decisione appena presa. Il capo redazione l'ho conosciuto dopo un po' di settimane, l'esame per l'iscrizione all'albo l'ho passato dopo qualche anno. Ho cambiato un po' di testate, poi alla fine son rifinito ad "Il Mattino", si vede che era destino. Da li' ad oggi, un buco nero. Un abisso, un Medio Evo personale. Tutto un insieme di scelte rovescie; di fortune e possibilita' lasciate a marcire nei cassetti. O forse che semplicemente non mi interessavano sul serio. Questo fino a ieri, a quell'incidente. E a domani, al parcheggio; chissa' che sia un gran finale, almeno. Sovrappensiero mi ritrovo davanti al solito cancello; poi alla porta di casa. Getto le chiavi sulla tavola, mi lancio su una sedia, la luce è quella delle insegne a colori, nella foschia rimasta aldila' del vetro della finestra. In frigo nemmeno una birra. "Per quest'oggi chiudo i rapporti col mondo", penso, l'ultimo sforzo e' in direzione del telefono, voglio staccarlo. Ma sotto alla porta d'ingresso attrae la mia attenzione un foglio, bianco. Un flash, è di nuovo l'incidente. E' di nuovo quella busta che mi avvertiva il giorno prima. Esito un po'; lo raccolgo, lo apro... è un nome, un indirizzo. "Sono a Milano, via Rubicone, l'ultima casa a sinistra. Devo parlarti". "Sara." Un istante. La pressione d'un fondale marino e il vuoto del buio cosmico; mille pezzettini di me in una fossa comune e il rogo d'un sorriso su di un bel viso lontano; è il fuoco d'un inceneritore, il freddo cupo del ghiaccio. <>, mugolo solamente, lasciandomi crollare sul pavimento. <>, gli dico, puntandomi il dito indice alla tempia ed abbassando il pollice a fare il grilletto. Intorno a noi il silenzio della notte. Nemmeno un cane, di fronte al centro commerciale. Le solite luci gialle, la tettoia dei carrelli, le cabine telefoniche, i cestini, il ronzio perpetuo della citta'. Solo una macchina, parcheggiata. La mia fedele A centododici. <>, mi risponde alzandomi le spalle. Mario non e' mai stato il tipo cui rivolgersi in cerca di sicurezze. <> <>, gli rispondo tirando un sorriso. La sigaretta accesa gli distorge per un attimo le labbra. Poi la lascia cadere sull'asfalto, la schiaccia. <>, dice a bassa voce. Alle nostre spalle, silenziosa, rallenta un' auto bianca. Si avvicina, si ferma. Due occhi ci inquadrano dietro il finestrino scuro; Il vetro lentamente si abbassa ritirandosi nello sportello. E' incredibile come ci si possa sentire in queste situazioni. Quando lo vedi alla TV, sai che puoi cambiare canale, sai che e' un film, sai che fra poco magari quei due sono morti e che ci sara' la pubblicita'. Ma quando sei di fronte alla macchina bianca, quando scende lentamente il finestrino, quando quei due sei tu, le cose son diverse. Il pensiero congelato, mi sento come se fossi improvvisamente diventato qualcun altro. Ogni mia minima espressione è assorbita da una incontrollabile immobilita' totale. Dentro di me, freddo. Come se la mia parte consapevole sia completamente sepolta sotto la neve. E tutto al rallentatore, per di piu'. Contemporaneamente mi chiedo se dal di fuori si possa notare quanto mi sia improvvisamente sconnesso dalla realta'. Vedo invece Mario, di fianco. Tranquillo, si avvicina all'auto, dice due parole a quegli occhi dietro al finestrino, si allontana, tace. Il vetro si richiude. Si aprono le quattro portiere. Questa pare veramente la scena di un film, accidenti. Quattro uomini. Due guardie del corpo, dietro; le mani nascoste nel buio. L'autista, scuro. E di fronte a me, lui. La voce che da un anno ho sempre avuto paura di raccontare nei miei pezzi. Di fronte a me, impassibile. <>, chiede rivoltgendosi a Mario, ed indicando me. <>, la risposta. Ah, caldo. Una vampata di caldo, nel petto. Poi alla schiena, poi alle tempie. Il respiro bloccato, la pelle sudata. Di colpo subito freddo. <> Lo vedo mentre consegna a Mario qualche cosa, poi mi indica lo sportello posteriore, dove la guardia del corpo mi lascia spazio. Senza rendermene conto mi avvicino, monto. Sono un automa. Un attimo. Odor di sigaro, di sudore, le porte chiuse, l'auto in moto. Nemmeno una parola. <>, penso. <<...poi... poi niente! Non mi ricordo piu' niente!>>, esclamo riprendendomi dalla foga cui mi ero lasciato andare nel raccontare. Via Rubicone ultima a sinistra, secondo piano, finestra socchiusa sulle luci dell'autostrada. <>, mi risponde semplicemente a bassa voce lei. <>, le dico, fissandola freddo. Lei li' seduta sul letto, le gambe incrociate e le mani abbandonate. <> comincia. Io la investo di scatto alzando la voce: <>. <>... Mi rendo conto di essermi lasciato un po' trascinare dalle parole. La guardo, lei cosi' libera, sul letto. E cercando di calmarmi un po' provo a rimediare in un colpo solo a tutti i miei anni di apnea: <>, le dico.